giovedì 3 gennaio 2013

Tempo fa...



Avevo un blog, tempo fa.... questo blog, dove ero solita immaginare e scrivere realtà parallele alla mia vita, mischiando sentimenti difficili da esprimere a storie dotate, in parte, di vita propria. 
Poi, un giorno, decisi di cambiare look alle parole e mi risultò così difficile capire come scrivere ancora, che smisi. 
Non so perché smisi e non so perché ricomincio. 
L'unica costante, in questa pigra confusione di gesti, è che "non so". 
Ma forse, la fine delle vacanze di Natale e l'insolita aria primaverile che riscalda questo inverno, sono state motivi sufficienti a riprendere in mano la penna. E così, in questo ritorno al passato che dal passato nulla pretende e cerca, sembra quasi che le mie paure trovino riposo, le ansie ristoro, i dolori passati una strana conformazione di esperienza, verso cui oggi non provo più rabbia ma riconoscenza. E chissà che questo non sia, per i miei pensieri, una rinascita destinata ad avere futuro...
Le parole, spesso, troppo spesso, restano chiuse negli angoli più segreti di ognuno, forse perché loro _ come a volte noi_ temono la luce del giorno, col suo misterioso potere di svelare le imperfezioni. Come quando ci si guarda allo specchio con la persiana chiusa e poi lo si fa con la persiana aperta, in pieno mezzogiorno: le sopracciglia non proprio perfette, le rughe di espressione, i capelli disordinati si manifestano in tutta la loro inspiegabile, non voluta, violenza. 

Alla soglia dei miei trenta anni (portati bene, dicono) verrebbe naturale fare bilanci ma, in un mondo che quotidianamente ti passa alla lente d'ingrandimento, non credo di avere voglia di auto-rimproverarmi, almeno non per le cose che non posso cambiare e che, a modo loro, sono state determinanti nella costruzione difficile, dolorosa, del mio carattere... 
"Questo cuore, è sparpagliato, è delicato... è tutto qua."
 Non posso che augurarmi, con sincerità, "buon anno"...

domenica 10 luglio 2011

esercizi di scrittura - storie che mi piacerebbe vivere

Era un tango appassionato quello tra due menti contorte, misurate nelle distanze di sicurezza, impegnate nello slalom delle sensazioni irrazionali che turbano la serenità dell'abitudine, abbracciata con rassegnazione cupa e tormentata. Un passo, un altro, un giro intorno a lei, così fredda e così immobile. Nera. Neri i capelli lunghi e fini, profumati di sandalo e rosa. Nero il lungo abito accollato e chiuso, per non tradire la carnalità della figura eterea e pallida. Nero lo sguardo, profondo e acceso di vita sommessa. Rosse le labbra carnose e chiuse. Non dava cenni di partecipazione mentre lui, sicuro e fiero, deciso nei movimenti dolci e striscianti, l'avvolgeva col suo profumo di agrumi. Non la guardava, mai. Ogni sguardo avrebbe tradito la sua intenzione di amarla fino all'ultimo gemito, quella notte dall'umidità fastidiosa. E uno, due. Un giro ancora. Lei socchiuse appena le labbra, tradendo il cuore che batteva forte, perché il buio della sala e quella presenza che le stringeva l'aria tutto in cerchio, la turbava. In uno secondo, lunghissimo, le fu con le labbra all'orecchio e le disse, a voce bassa e rapidamente, ansimante appena:
-"Mi permetta di invitarla a ballare. Questo ballo. Un ballo solo."
La risposta di lei si esplicitò nel respiro sincopato e veloce.
Lui le prese la mano, delicatamente, e la voltò verso di lui.
E cominciò così una danza dolorosa, segnata dal passo ritmato e fluido di lui, nella dimenticanza del raziocinio per lei, in uno squarcio di vita che illuminava di luce un'esistenza troppo fragile per risplendere di gloria personale. Non osava pensare che l'oscuro cavaliere la volesse per una notte soltanto, non voleva credere alla speranza che voleva portarla a immaginare un futuro di carezze e passeggiate, sorrisi e lunghe chiacchierate; sarebbe stato troppo, poi, dover tornare alla realtà che non regala amore ma sconfitte, continue sconfitte. Non voleva conoscere le intenzioni di lui, che pure sembrava rapito dai suoi capelli neri e dal suo abito così accollato, tanto poco sensuale quanto misterioso. Lui che, dal canto suo, assaporava ogni attimo di quella danza respirando a fondo tra i suoi capelli, lui che aveva tanto desiderato quel momento e che, adesso, non credeva all'averla davvero tra le mani e non riusciva ad articolare le parole.
Lei avrebbe certamente pensato di non piacergli, lo sapeva, ma non riusciva a comportarsi diversamente da come faceva, ancora impaurita dalla danza scura e dallo sguardo indecifrabile di lui, impegnata più a guardarlo per comprenderlo che a seguire la musica.

la bianchezza della balena bianca

Sebbene sia bianco il signore degli elefanti bianchi
che i barbari Pegu pongono sopra ogni cosa
bianche le pietre che i pagani antichi donavano in segno di gioia, per un giorno felice
Bianche cose nobili e commoventi, come i veli di sposa, l'innocenza
la purezza la benignità dell'età
Sebbene abiti bianchi vengano dati ai redenti
davanti a un trono bianco,
dove il Santissimo siede, bianco come la lana
Sebbene sia associato a quanto di più dolce, onorevole e sublime
La bianchezza della balena
Niente è più terribile di questo colore, una volte separato dal bene
Una volta accompagnato al terrore
La bianchezza dello squalo bianco,
l'orrida fissità del suo sguardo
che demolisce il coraggio
La fioccosa bianchezza dell'albatro
nelle sue nubi di spirito
La bianchezza dell'albino bianco
E cosa atterrisce dell'aspetto dei morti
se non il pallore
bianco sudario colore?
Spettri e fantasmi immersi delle nebbie di latte
Il re del terrore avanza nell'apocalisse su un cavallo pallido
E pallidi i cappucci della pentecoste
e il mare nel suo richiamo abissale
Nell'antartico, bianco sconfinato cimitero,
il bianco sogghigna nei suoi monumenti di ghiaccio
il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo
Bianco l'inverno bianco, la neve bianca
bianca la notte
Bianca l'insonnia bianca, la morte bianca
e bianca la paura è bianca
L'universo vacuo e senza colore
ci sta davanti come un lebbroso
anche questo è la bianchezza della balena
la Bianchezza della balena
Capite ora la caccia feroce? il male abominevole,
l'assenza di colore.

lunedì 13 giugno 2011


Uscii fuori a guardare il più strano e meraviglioso balletto mai visto: il giorno corteggiava la notte, regalandole una rosa dai toni rosso pastello, come ogni sera, caparbio e risoluto, testardo nell'intento di farla sua, di rapirla, fosse anche per qualche ora
soltanto. Pensai che, se avessi aspettato qualche attimo, avrei potuto perfino guardare le prime stelle spuntare; aspettai. Volevo vedere quelle stelle comparire all'improvviso, forse solo per poter dire a me stessa di non aver aspettato invano la sera. Una musica cominciò a suonare ma non c'erano orchestre intorno, né bande musicali, né uno stereo: solo il verde della casa di fronte, le grida lontane di un bambino che rincorreva allegro il suo pallone e il rumore del mio respiro. Ma cantava la mia testa, ripeteva, come una nenia, le tre battute di una filastrocca dimenticata. "Uccellin che vien dal mare quante penne puo' portare?Puo' portarne Trentatre', uno due tre." a bassa voce una, due, tre, trenta volte "Uccellin che vien dal mare quante penne puo' portare? Puo' portarne Trentatre',uno due tre."
Quando poi cominciò a soffiare il vento sciolsi i capelli, lasciai le labbra schiuse alle carezze della frescura delle serate estive e chiusi gli occhi. Ero sola, certo, poco incantata, rigida e ricoperta di aculei ma la sera mi scopriva nella mia fragilità elementare, macchiata del sangue delle ferite che io stessa mi ero procurata col silenzio di una mancanza ferma al petto e nelle più profonde sinapsi del cervello, come ai recettori olfattivi che riproducevano con grande verosimiglianza quei profumi. Mi riscopriva più donna che bambina, avvolta da un mantello di dolore misterioso ma sorridente nelle difficoltà di un'età ancora non pienamente sbocciata. Uccellin che vien dal mare
quante penne puo' portare?Puo' portarne Trentatre',
uno due tre.
No, non avevo aspettato invano la sera.

sabato 7 maggio 2011

Se vuoi scrivere un libro, fermati ad aspettare un treno. Troverai un tripudio di sguardi, parole, urla, lacrime, sorrisi. Mani che si stringono e dita che si muovono nervose, zaini pieni di stanchezza e speranza, capelli perfetti e barba incolta, panini divorati dalla fame automatica e mozziconi di sigaretta, clochards felici di esserlo, birre amiche alle undici del mattino come all'una della notte, denti neri e piedi nudi, o fasciati in un paio di splendide hogan.
Se vuoi scrivere un libro, fermati ad aspettare un treno. Gli occhi più belli che tu possa avere sono quelli della enterwerter, sospesa a mezzo muro, gialla d'ittero, ad aspettare che un nuovo amico si fermi a scrivere il suo passaggio. Basta sedersi su una qualsiasi panchina, in qualsiasi momento del giorno o della notte e mille e più storie si srotolano e si scrivono da sé, lettera dopo lettera, attraverso un paio di occhi scuri o il passo svelto del pendolare stanco, attraverso la valigia del turista appena arrivato nella città eterna o nel sorriso spento del disgraziato. Gioie e dolori di esistenze, ognuna sconosciuta ai più. Nessuno scrittore potrebbe mai trovare parole più belle di quelle che una enterwerter sarebbe in grado di riscrivere passo passo dai racconti di tutti questi uomini, uomini e donne, che compongono il più bel mosaico della Vita. Ognuno sottolineerebbe le fasi più belle o più dolorose aggrottando le sopracciglia, spingendo il tono della voce, spostando i capelli con fare nervoso.
Se vuoi scrivere un libro, fermati ad aspettare un treno... Anche io avevo l'ambizione di scrivere un libro, pur avendo sempre riconosciuto a me stessa poca fantasia oltre che una discreta perizia nello scrivere. Ma di fronte a tanta bellezza, di fronte a un quadro così sfumato di colori, potrei prendere un qualsiasi corpo come spunto e cominciare a dipingere da lì, dal più piccolo dettaglio o dalla stranezza più eclatante. E, in tutto questo, credo di essere nata per il Mondo; per la sua parte più scomposta e disorientata, ermetica nei silenzi chiassosi, stanca e euforica, bipolare e fragile... e io ne sono parte integrante.

sabato 4 dicembre 2010

Diario di viaggio (1) - Praga.

Arrivammo che la notte aveva ormai scurito il grigio delle nubi; l'aria era fredda ma non come avevamo immaginato e questo fece tirare a tutti un respiro di sollievo: forse avremmo scampato quello strano senso di gelo nelle ossa a cui, notoriamente, gli Italiani non sono poi così abituati. L'aeroporto era deserto e non so dire quali fossero esattamente i miei pensieri in quel momento ma ricordo che la preoccupazione più grande era per il cibo.
Saranno state le parole sempre ripetute su Praga ma effettivamente l'aria sapeva di sesso sommerso, rubato, nascosto o manifesto tra le strade e i fritti con cipolla. D'altra parte, non è sconosciuto agli occidentali questo aspetto della cultura dell'est; le donne più belle del mondo si concentrano in quest'area del pianeta e, a ciò, si aggiunge il fatto che tale loro dote naturale abbia portato alla valutazione della donna come oggetto fonte di guadagno, uno splendido oggetto da presentare al turista che, spesso, si muove unicamente per questo motivo.
L'impressione prima che ho avuto è stata che tutto avesse un odore diverso da quello di casa ma non sgradevole.... semplicemente diverso. Ci aveva accolti una pioggerella leggerissima, fina, così sottile che, per la prima volta in vita mia, non sentivo la smania di aprire l'ombrello, bastava il cappuccio. Il nostro interprete cercava di comunicare con Marco, l'unica persona in grado di parlare l'inglese in modo fluente mentre io restavo immobile a sentire, fingendo di essere immersa nella mia bolla di incomprensione comunicativa.
Credo che il grado con cui riusciamo a a stupirci sia direttamente proporzionale alla disponibilità dell'anima a rimanere stupita e inversamente all'ingombro di pensieri nella testa. Io mi trovavo nel mezzo, per entrambe le condizioni; per questo, l'impatto non fu dei migliori ma presi presto confidenza con quel cielo pesante di tonalità di grigio e basso e con tutte quelle guglie che sapevano tanto di romanzo di fantasia. Salì presto l'ansia di fotografare ogni centimetro della città, per far sì che gli affetti che avevo lasciato a casa potessero vedere con i loro occhi tutto quello in cui ero stata catapultata per poi riuscire a sentire, attraverso le mie parole, i profumi, le sensazioni, l'euforia di quei giorni. Charle's Bridge, la Moldava, Piazza dell'Orologio, il Castello diventavano sempre più familiari, al punto che mi riusciva perfino facile orientarmi benché le insegne e la cartina esclusivamente in ceco non aiutassero nei movimenti. Quello che mi ha lasciata un po' a metà sono state le strade quasi sempre deserte, fatta eccezione del centro, e la freddezza della gente del posto, piena del proprio lavoro e di un distacco assoluto... non so dire se sia davvero così o se sia stato un problema mio, che amo in massimo grado l'espansività e la solarità solidale. Tra tutti, però, c'è stata un'eccezione: Linda, una ragazza bionda, esile e con due occhi azzurri furbi e allegri, che lavora come cameriera nel ristorante italiano Buschetto, a Piazza San Venceslao. Parla benissimo l'italiano perché ha vissuto cinque anni qui da noi e ci ha fatto sentire a casa quando, dopo una scorpacciata di confusione mentale per un contesto incomprensibile, avevamo bisogno di qualcosa che parlasse la nostra stessa lingua e portasse addosso il nostro stesso odore.
Il fatto che la gente non camminasse per strada, però, mi aveva fatto impuntare e, così, ho chiesto spiegazioni ad Ales, il nostro interprete in inglese. Ales mi ha spiegato che quello che si vede fuori non è quello che c'è dentro: il clima molto rigido ha plasmato, comprensibilmente, le abitudini delle persone che non possono girare a piedi quando il freddo è così penetrante da tirare giù le orecchie; così, mentre le strade si svuotano, i locali si riempiono, che si tratti di ristoranti, pub, pizzerie, centri commerciali, negozi, non importa. Da ciò si spiega anche l'attenzione massima per il design: ogni locale è curato nei minimi dettagli, arredato con mobili e oggetti originali e sempre di senso nel contesto in cui vengono posti. Abitudine diffusa è quella di appendere o attaccare oggetti al soffitto: non è raro alzare lo sguardo e trovare appesi quadri, vasi con piante in una composizione d'edera e, addiritturam pianoforti e fisarmoniche!
Il centro, invece, dal canto suo, è sempre pieno di persone tra le strade, turisti che si muovono tra i mercatini e i monumenti e che si ritrovano tutti, alle 12 in punto, a piazza dell'Orologio per assistere allo spettacolo della danza della morte: un trombettiere, in un costume a strisce rosse e gialle, sale fin sulla Torre e comincia a suonare mentre le finestrelle, immediatamente sopra il grande orologio astronomico dalle sfumture blu e oro, si aprono per far sì che possano essere esposti i dodici apostoli che si presentano in fila, uno dopo l'altro, sei da una finestrella e sei da un'altra. La morte, sul lato destro della Torre, ricorda la sua presenza attraverso un teschio che batte rintocchi veloci sul suo campanello. Tutto si svolge nel giro di pochi minuti e, a spettacolo concluso, la folla radunata abbassa lo sguardo e si disperde, di nuovo, tra le stradine pulitissime del centro.

Non è stato triste tornare a casa... dopo un po' avevo cominciato ad avere di nuovo bisogno di sole che, a Praga, è sempre rimasto timidamente nascosto dal fitto manto di nubi.
Atterrati a Fiumicino e, poi, in macchina verso casa, l'unica nostalgia è stata per quel senso di sospensione a mezz'aria che ho provato sull'aereo, quella sensazione di essere davvero al di sopra delle nuvole, al di sopra di tutto, quelle nuvole che adesso potevo guardare solo rimanendo imbambolata con il naso all'insù.
Il bilancio è assolutamente positivo, nonostante all'inzio non credevo potesse esserlo. A me succede sempre così: mi innamoro di tutto ciò che a prima vista non mi piace e Praga non ha fatto eccezione.

lunedì 1 novembre 2010

Roma col sole è meravigliosa, viva; lei è viva per sé stessa e per te, che dentro puoi non esserlo abbastanza e per tutti quelli che la amano calpestando le sue superfici. Ricordo una conversazione anomala di tanti mesi fa: "vedi", mi diceva, "vedi... io morirò mentre tutta questa meraviglia mi sopravviverà, come è sopravvissuta a tanti, tanti, tanti prima di me". Eravamo al Colosseo, tra le voci divertite dei turisti, la pioggerella scomoda di fine gennaio e quegli interrogativi che sapevano di invidia umana per la storia, per quelle pietre profumate di essenze indecifrabili, di sudore, sangue e tempo insieme.

L'altro ieri ero a Via del Corso, con una compagnia diversa, ma la sensazione era la stessa: l'invidia per tanta bellezza sfuggita eternamente al tempo lasciava in bocca un sapore dolcissimo e tra i sensi uno strano torpore d'abbanono. Scrivere non basta per rendere l'idea; la mia penna non ferma che qualche piccolo frammento di pensiero ma non sa tirare la linea nel tratteggio.
Vorrei saper disegnare con questo inchiostro tutto quello che sento ma so che non è abbastanza florida la mia vena "artistica".

Mi piacerebbe riparlarne con te... che sei matto da legare ma straordinariamente parte del mondo.

giovedì 14 ottobre 2010

parole, parole, parole.

Lavorare con le parole è un compito di responsabilità oltre che un'occupazione artistica.
Le parole sono l'arma più subdola che l'uomo abbia a disposizione e significano soprattutto quando si fanno attendere: non rispondere è una risposta più valida della risposta manifesta perché indica un non atto e, dunque, una posizione netta.
La comunicazione verbale è ciò che consente scambi "umani" più o meno semplici e veicola messaggi senza difficoltà interpretative ma, proprio in questa scontatezza consumata nell'uso quotidiano, ha luogo la tragedia della sottovalutazione del loro potere intrinseco.
Sono molto rattristata per l'utilizzo improprio di termini con un valore incalcolabile perché, tale abitudine massiva, mi lascia la sensazione che nulla abbia più peso: tutto è alla mercé di una esaltazione globale, per giunta finta, attraverso cui tutti sembrano delle grandi personalità luminose. Ma che tristezza quando, invece, ci si accorge che la verità è diversa! altro che anime luminose; sono solo abbagli, specchi per le allodole.
Chiunque sia consapevole delle parole è detentore della delicatezza dell'essere: nessuno che abbia rispetto per un altro caricherà le spalle di una parola di sacchi di piombo se l'impalcatura per sostenere è appena plastica; nessuno che abbia rispetto per l'altro userebbe delicatezza se è necessario impeto.
Per ogni emozione, per ogni circostanza ci sono parole abbigliate all'uso e non ditemi che se non si fa attenzione il problema è la superficialità perchè vi risponderei che è proprio la superficialità che condanno ed evito.

venerdì 1 ottobre 2010

Buonanotte... a domattina.

"Molte cose giocano a rincorrersi nella mente, da qualche ora a questa parte.
Non sono riuscito a chiudere occhio, stanotte.. o meglio, lasciavo che le palpebre si stendessero ogni tanto ma solo per permettere alle lacrime di accarezzare il viso.
Non so come sia possibile che il mio animo si senta ancora lacerato da quella sceltà di libertà, non so perchè il tempo, invece di curare, stia ingigantendo il ricordo e l'emozione. Ho tentato più volte di trovare il filo del discorso ma non ci sono riuscito; ogni prova riporta dritta al suo sorriso, ai suoi capelli perennemente spettinati, al suo volto abbandonato all'anarchia del vento, alle sue mani piccole ma forti. Questa notte mi sembra una prigione eppure qualcosa, dentro di me, chiede al carceriere col suo volto di chiudere a tre mandate, di non fare la spia e di gettare la chiave di modo che io non possa uscire. Beh se tutti i carcerieri fossero così sarei fortunato...
Cerco di respirare profondamente per rallentare il battito del cuore ma solo perché ho paura che possa scoppiare e ti chiedo, mio amico immaginario, c'è una scelta giusta da fare? oppure la scelta giusta non c'è e quello che mi aspetta non sarà altro che un elenco casuale di eventi? Ti prego, rispondimi, ho bisogno di sapere; ho bisogno che la sua freddezza si trasformi nella mia possibilità di riprendere in mano le sorti della mia vita. Neanche aver avuto così tanta paura è bastato a voltare pagina ed è esattamente l'incapacità di lasciar andare che mi spaventa. Oscar Wilde diceva che solo le anime deboli si comportano così ... mi sarebbe piaciuto che Oscar Wilde avesse più stima di me... o forse no, perchè non ho mai prestato molta cura alla costruzione della mia maschera di forza, convinto che la vera forza sia nell'autenticità dei sentimenti... ma sarà poi vero quello in cui io credo? Ho la sensazione che le mie convinzioni siano un po' come un incosciente che ha l'ardire di camminare in una soffitta di legno sgarrupata, dove il legno scricchiola a ogni passo e la polvere sale fino a riempire le narici.
Apro gli occhi mentre continuo a singhiozzare: è tutto scuro, non distinguo nulla... e allora mi diverto a immaginare la volta del cielo, colorata di un blu cobalto che sembra velluto e puntellata da miliardi di stelle splendenti, appese come per incanto a qualche nuvola nascosta ai sensi. La vista di tutto questo dovrebbe rassicurarmi e, infatti, mi distende ma solo per un attimo perché torna il pensiero " a lui piace tanto guardare il cielo, a lui piacciono tanto le nuvole. Spero sia al caldo, che abbia mangiato e che sia sereno".
Le lacrime restano tra le palpebre.
Buonanotte... a domattina.

martedì 24 agosto 2010

Ogni tanto scrivo dal niente e per niente, per ispirazione.

Pensavo che quella mansarda fosse troppo piena di oggetti, di insetti e di polvere e io avrei dovuto passarci la notte. Così cominciai a sporcarmi le mani di nero nel tentativo di spostare qualcosa per potermi accucciare, esattamente come fanno i cagnolini, pensando tra me e me, di tanto in tanto, "ma chi me l'ha fatto fare!". Eppure, per l'amicizia si fa questo e molto altro. Qualsiasi cosa mi avessero detto in quel momento non avrebbe cancellato il sorriso da babbeo che avavo sulle labbra perchè il viaggio valeva la pena di essere vissuto. L'amico che dovevo incontrare ero esattamente io perchè, diciamoci la verità, non ero mai stato realmente amico di me stesso, avevo sempre odiato qualcosa del mio aspetto e non ero mai riuscito a comprendere gli angoli del mio carattere quadrato. Ma un giorno un saggio mi disse: "non puoi arrivare a conoscere gli altri fino in fondo se, prima, non impari a conoscere te stesso senza pregiudizi, senza spaventarti delle tue fragilità perchè la fragilità è una caratteristica peculiare dell'uomo e se io potessi, oh, se potessi, la conserverei in una teca di cristallo". Era saggio quel saggio e lo capivo solo in quel momento, mentre sentivo le formiche salire su per la gamba. Avrei dovuto imparare a non fare brutte smorfie alle mie debolezze come, invece, avevo sempre fatto per tutti i soli trascorsi dalla mia nascita a quel momento. Sorrisi. "ogni viaggio di scoperta di sé stessi ha un costo e il costo figurato è molto, molto, molto più alto dei costi effettivi che si incontrano. "Mio piccolo amico, sei ancora così piccolo! Quante cascate devi vedere, quanto cielo e quanto sangue, quanto bene e quanto male, quanta luce, quanta! Ma nei momenti in cui sentirai gli occhi chiudersi per via dell'intensità del sole e il corpo riscladarsi piacevolmente, non dimenticare di volgere lo sguardo alla luna, che ti ricorda che non è sempre giorno, che la vita è un'altalena tra sole e buio, tra bello e brutto, tra forza e debolezza."
Ricordavo le parole di quel saggio come se le avessi udite pochi istanti prima, eppure ne era passato di tempo. Forse, le ricordavo perchè il coraggio mi aveva imposto il viaggio e mai come in quel momento era importante, per me, ricordare. "Vedi, mio piccolo amico, io ho vissuto molto e solo dopo aver consumato la metà dei miei anni in routine di pratiche inanimate mi sono accorto che tutto quello che avevo fatto non aveva alcun valore, e sai perchè? Perchè avevo lasciato che l'abitudine divorasse i miei slanci, i miei bisogni, i miei desideri. e così sono venuto qui, tra queste due cascate, dove non c'è nulla ma proprio nulla se non il rumore dell'acqua e del vento tra le fronde. E sai cosa ho capito? Che si può fregare il tempo! Sì, si può fregare il tempo, te ne meravigli? e sai come si può fare? sconvolgendo sé stessi e imparando ad afferrare ogni attimo senza dimenticarsi di guardare quell'attimo da diverse angolazioni, per non lasciarsi scappare neanche un riflesso. Lo dico a te, mio piccolo amico, perchè so che puoi comprendermi perchè hai mantenuto la purezza del cuore di un bimbo nell'anima come negli occhi. Vai, afferra la tua esistenza, stringila e renditi parte della Natura perchè è questo che siamo davvero chiamati a fare."
La prima cosa che feci fu tornare nella casa dove avevo vissuto da bambino, per riassaporare le gioie di un tempo e ritrovare una dimensione adimensionale; e tra quei moscerini mi riuscì perfettamente. Io sono parte della Natura e tale voglio restare. E' naturale.

sabato 7 agosto 2010

i castelli di sabbia.

Ci vuole tanto tempo per costruire castelli di sabbia; bisogna scegliere bene il quantitativo di acqua con cui amalgamare la sabbia asciutta, bisogna saper muovere bene le mani, dare un taglio di forza se occorre compattare nel modo migliore e avere tanta, tanta pazienza. Ma un castello di sabbia, un castello di sabbia resta: le onde del mare sono più forti dell'impalcatura che si cerca di dare alla terra; perfino la spuma riesce, a poco a poco, ad erodere. E la brezza diventata vento butta giù tutto, in un attimo. Tempo sprecato.
Mi chiedo perché la gente si ostini a costruire castelli di sabbia; trovo che sia un'occupazione molto poco sensata. Costruire per poi vedere tutto distrutto... meglio allora non costruire affatto e passare il tempo a rotolarsi nella sabbia.
Eppure, la mia vita è piena di castelli di sabbia, dalle forme più diverse e complicate, alcuni sembrano addirittura progettati da architetti esperti. Ma hanno fatto, fanno, tutti la stessa fine, basta un attimo; la fine che ha inizio da una sensazione di errore, di fiducia assoldata che viene macinata con indosso il vestito delle feste, di stanchezza. A guardare indietro sembra un campo di battaglia, con i resti abbandonati li, anche un poco a caso, e il fumo che ancora esce da qualche pezzo di carte dato alle fiamme.
Solo che io sono stufa di costruire castelli di sabbia, vorrei cominciare ad usare anche il cemento e il marmo per gli interni.

martedì 3 agosto 2010

dove Lilly voleva stare

Mi piacerebbe che leggeste ascoltanto la canzone "Stuck in a moment" degli U2


Tornò sul luogo del delitto perchè aveva creduto fosse giusto così. Il sangue era ancora lì per terra ma era scuro, adesso, rappreso. Lucas guardava la scena senza battere ciglio, con l'atteggiamento duro di sempre anche se qualcosa, dentro, gridava rabbia e impotenza e solitudine e paura. "Chi l'avrebbe mai detto, eh?" sospirò.

Poggiò lo zaino per terra e si sedette accanto, incrociando le gambe come d'abitudine, come aveva fatto anche quel pomeriggio con Lilly, quando ancora sentiva di essere colpevole per le attese di lei, per il detto e il non detto. Era partito ma era tornato indietro per esorcizzare quell'abbraccio di cui sentiva di avere ancora bisogno. Strinse le arcate dei denti una contro l'altra, fece pulsare la mascella e scurì lo sguardo, cercando di ricacciare le lacrime che si affacciavano sul viso. Lui, che aveva sempre creduto nel potere assoluto della volontà, doveva arrendersi alla vittoria del caso, delle non regole sulle regole, del gioco sporco sul gioco leale, degli anni sugli attimi.
Scontava tutte le colpe passate in quel bisogno di normalità che l'aveva scottato più della stranezza con cui si era sempre dissetato, inaspettatamente desideroso di dolce e non di amaro. Adesso, adesso i giochi erano ormai compiuti e non c'erano più strade possibili da percorrere insieme ma un unico sentiero diroccato che aveva, però, sbocco sul mare, il mare che lui amava tanto e che lo aveva accolto, sempre, a ogni ferita, a ogni ritorno.

- "sei qui". Una voce dolce e sottile lo sorprese. Si voltò sorridendo mansueto perché l'aveva riconosciuta; era lì', ancora una volta, a tendergli la mano per alzarlo da terra.
Si guardarono sorridendo, l'uno cercando ancora di riconoscersi nell'altra.
- "Grazie per essere venuto, Lucas."
- "Non c'è di che".

Lilly si sedette al suo fianco e lo guardò con gli occhi un poco lucidi perché, in quel momento, avvertiva tutto il peso che Lucas aveva caricato sulle spalle, tutte le spine che gli avevano provocato dolore e che lui aveva tolto con pazienza, una a una, disinfettando con cura la pelle trafitta.
Cominciarono a parlare del più e del meno, come fecero la prima volta che decisero di comunicare ma Lucas, all'improvviso, sbottò.

- "Sai, lilly, cosa è davvero terribile per me?"
- "cosa, Lucas?"
- "non vuoi provare a capirlo da sola prima che io te lo dica?"
Lilly abbassò gli occhi: era evidente non volesse e Lucas avrebbe fatto bene a farsi bastare l'attenzione che fino a quel momento gli aveva accordato, per altro a tratti.

"e' terribile sapere che non sei mai stata mia, mai, neanche per un secondo soltanto, nonostante ti avessi tra le mani" Lucas gesticolava come se stesse mimando gli abbracci che l'avevano fatto innamorare mentre cercava di trovarla negli occhi che lei continuava a nascondere per mancanza di coraggio: non sapeva proprio con quali parole ribattere a ciò che Lucas aveva appena detto e sentiva che il momento della verità era tristemente vicino.

- "è così, non è vero?" la incalzò Lucas
- "lucas..."
- "è così, vero? Rispondi!"
- "lucas io..."
- "Rispondi!"
- "Lucas io non...."
e Lucas si alzò di scatto, afferrando con forza la sacca e cominciando ad allonanarsi da lei.
- "lucas, credimi! io non avrei mai voluto farti soffrire! mai!" Lo sguardò di Lilly aveva tutta l'aria di essere senza speranza e la voce cominciava a tremare, come mai era accaduto fino a quel momento. "Lucas, ti prego, fermati!!" urlò squarciando il cielo. Lucas si immobilizzò di scatto ma non si voltò verso di lei e "cosa vuoi?" urlò di risposta, freddo come il ghiaccio. Lilly prese ad andargli incontro ma, arrivata a un centimetro dalle sue spalle, non ebbe il coraggio di toccarlo.
- "lucas, perdonami, io non volevo lo scoprissi così, non volevo! e sapere che adesso stai soffrendo a causa mia mi devasta l'anima ma..."
- "ma tu ami Leandro."
- "Lucas... "
- "... per favore, risparmiami le chiacchiere di rito. Ti avrei aspettato tutta la vita, se tu me lo avessi chiesto. Ma non me lo hai chiesto e io non potrei mai aspettarti, di mia spontanea volontà, sapendo che lo ami anche ancora e che, peggio, non hai smesso un secondo di amarlo, neanche quando era la mia carne che tenevi tra le mani."
- "Sei importante per me, Lucas. Ti ho raccolto io dalla strada, ricordi? ho a cuore la tua vita, sto bene quando mi parli, mi sento felice se posso condividere con te le mie giornate.."
- "ma ami lui, Lilly."
- "non andare, ti prego, non lasciarmi adesso."
- "non posso restare, Lilly e non posso restare perché ti amo. Addio".

Lucas riprese a camminare, mentre una lacrima solcava il viso, lasciando Lilly nella posizione di un plastico, con il braccio teso verso lui che andava via. Ma non pianse, Lilly: in fondo, Leandro la aspettava dall'altra parte della strada ed era lì che Lilly voleva stare.

giovedì 29 luglio 2010

"E' bella la strada per chi cammina."

Prese su lo zaino, pesante e pieno fino all'orlo, lo assestò per bene sulle spalle, testò il baricentro del bacino e cominciò a camminare, stanco prima ancora di muovere i primi passi.
Davanti agli occhi, una strada lunga, segnata ai bordi da piante di varia natura e dal letto posseduto dal giallo scuro delle foglie cadute, tagliava a metà la campagna dipinta dai toni soffusi d'autunno.
Teneva lo sguardo dritto per non cedere alla commozione del cuore e stringeva i pugni nelle mani come era sempre solito fare. Aveva paura ma non l'avrebbe mai ammesso, neppure a sé stesso, perché farlo avrebbe di certo significato lo stop del suo cammino, cominciato per la perdita di un'ombra dai capelli biondi e proseguito, tra bene e male, con la compagnia discreta di un'anima nobile.
Lasciava che i volti delle presenze che lo avevano accompagnato fino a quel momento facessero capolino dalla tenda scura dei suoi occhi e che lo salutassero con le loro abituali movenze, diverse per ognuno e, per ciascuno, cariche di emozione.
Per ogni ricordo di sguardi sentiva affiorare un sorriso diverso, diverso forse perché ogni quadro d'avventura aveva assunto un significato differente, bello per la sua assoluta irripetibilità anche quando protagonista indiscusso era stato il dolore.
Non fuggiva, Lucas; semplicemente, andava via, di nuovo, per cercare la sua oasi di senso, sempre così vicina nella percezione del momento ma inafferrabile all'evidenza dei fatti; un po' come la pentola d'oro dell'arcobaleno: più ti avvicini e più ti sfugge.
Canticchiava un motivetto sconosciuto e, quando era stanco di sentire l'eco della voce, accompagnava il silenzio fischiettando, pregando a tratti per un aiuto ché la sensazione incombente era quella di non avere più abbastanza forza per andare avanti.
Ma la Luce che aveva da sempre guidato il suo cammino non smetteva di brillare e lo rassicurava con la certezza che tutto sarebbe andato come i suoi desideri, ottimisti e dalle grandi aspirazioni, avevano disegnato. E poi c'era l'ombra, che non era più semplicemente un'ombra ma una presenza viva e costante al suo fianco... e lo teneva per mano perché, se anche fosse caduto, non sarebbe rimasto a terra come quella notte, mai più.
Alzò gli occhi al cielo e si lasciò travolgere dal tramonto pastello che gli imponeva la sua bellezza, lasciandolo invidioso ma pieno di tanto splendore senza artefatto. In fondo, fondersi con la Natura era tutto quello che aveva sempre sognato e il suo essere socialmente solitario l'aveva aiutato, sempre, a non tralasciare il suo bisogno di contatto con la terra. Ma adesso, confuso da un sentimento che non sapeva chiamare per nome, non aveva più la certezza ferrea che il mare, il tramonto, il vento, le nuvole, sarebbero bastati a riempire le vene e, mentre continuava a infognarsi in ragionamenti razionali, capì che l'unica immediata soluzione era non smettere di camminare, ovunque la strada fosse diretta.
"E' bella la strada, per chi cammina."

domenica 25 luglio 2010

Sono una strada sbagliata.




Tu, che sorridi dolorosamente buttando lo sguardo in modo distratto da qualche parte intorno a te; tu che ti senti sempre in disordine e fuori posto; tu che quando esce il sole sei felice ma ti senti serena solo se puoi rimanere ferma a guardare la luna; tu che implori te stessa di non cedere, mai, anche quando tutto sembra spingerti oltre gli ultimi sassi dell'altura a strapiombo.
Tu che ti fidi, che non sai negarti, che perdoni; tu che non sei capricciosa ma comprensiva, che non sai ridere se sei arrabbiata, che non sai piangere se non ce n'è motivo, che non sai inveire contro l'altro ma provi a cercare una giustificazione. Tu che consoli anche quando dovresti essere consolata, che resti ore a guardare il soffitto bianco della tua camera in totale apnea mentale o con fervida immaginazione; Tu che digrigni i denti se qualcosa ti fa male, che stringi i pugni e ferisci te stessa pur di non ferire gli altri. Tu che non provi gusto a mettere alla prova, tu che cerchi di non giudicare, di non pesare su chi ti è affianco. Tu che adori i momenti di silenzio più di quelli rumorosi e parlati. Tu che sei insicura e che dovresti migliorare perché a nessun uomo potrebbero mai piacere le tue insicurezze, perché nessuno mai avrebbe voglia di accoglierti sfidando le incertezze, le tue paure, la tua estrema timidezza.
Tu che sei qui, oggi, a contare i tuoi errori, incapace di trovare qualcosa che ti dia la spinta per non smettere di desiderare: tu sei una strada sbagliata, un percorso turistico che non suggerisce la voglia di restare, che non strappa l'anima a morsi come una figura di donna dovrebbe fare con un uomo, che non rende inebriato e pazzo chi si accosta a te. Tu sei così qualcosa a cui è facile rinunciare e, quando te ne rendi conto, non sai proprio più da dove cominciare ché tutto quel che potevi migliorare l'hai già migliorato.
Tu, sei una strada sbagliata che non si percorre mai fino in fondo.
Tu non sei qualcosa di valore.
Tu sei solo una strada sbagliata.
Tu, sei una strada sbagliata.

venerdì 23 luglio 2010

Parla Piano.

La parola "purtroppo" ricorre molto spesso, purtroppo, tra le mie espressioni. Ecco, appunto, purtroppo.
"Sopra il volto tuo pago il pegno di volere ancora avere, ammalarmi di te, raccontandoti di me..."
Quel che resta è solo cenere, un grumo di granelli grigi che avanza la pretesa di essere comunque utile ad accendere una fiamma diversa dal fuoco della passione. Ma adesso io mi chiedo: "è davvero così semplice, per te?"; mai lo è stato e mai lo sarà, per me, anche se impossibile non è... tutto è possibile se lo si vuole.
"Affidarsi a te, non fidandomi di me. Sopra il volto tuo pago il pegno di rinunciare a noi, di vederti soltanto nel volto del ricordo".
Qualsiasi cosa tu voglia dire, parla piano, per non perdere una sola virgola di quello che vuoi dirmi, per non rendere confusa l'agonia, per infarcire il discorso di qualche bugia di comodo che scarichi la tensione che le nostre mani esprimono tremando, cercando le dita dell'altro per poi respingersi, consapevolmente responsabili di essersi toccate quando avrebbero dovuto non sfiorarsi affatto.
Qualsiasi cosa tu voglia dirmi, dilla, anche se probabilmente non ascolterò perchè lo sguardo è fisso sul mare, come quel giorno, e la testa troppo vuota e chiusa a mille mandate per permettere alla tua chiave di aprirla ancora, ancora una volta, senza che a coprire ci sia un velo di tristezza.
Parla piano, se vuoi parlare, ma non capisco proprio come tu possa ancora avere voglia di fare rumore con le labbra; in realtà non so se tu ne abbia voglia e non riesco a immaginarlo perché il filo che ci legava e che ci permettava di capire l'altro senza suoni, si è rotto... momentaneamente.
Quello che mi scorreva dentro, al passare di un pomeriggio caldissimo tra i granelli di sabbia, io, l'ho detto ma tutto quello che vorrei dire adesso, io, non riesco a dirlo: si ferma prima di arrivare in gola, corrodendo lo stomaco. Ma non permetto a questo acido dolcissimo di uccidere l'ottimismo con cui ho sempre imboccato le mie strade, sorridente e propositiva, disposta a trovare accordo, un punto comune e una risata in più... torneranno quei giorni, ne sono certa ma adesso non riesco ad esprimermi se non con qualche goccia d'acqua dal sapore un poco aspro e non riesco a volerti vicino se non un po' lontano: il tuo sorriso mi farebbe male, la tua spensieratezza mi colpirebbe così come mi colpisce il suo volto accanto al tuo.
Quando torno a casa mi illudo di riassaporare il profumo dei tuoi pensieri nella speranza di vedere il telefono illuminarsi; mi ripeto che mi piacerebbe camminare ancora nella tua testa, zompettare di qua e di la fino a strapparti un sorriso o un "dai, angelina, dobbiamo andare". Forse è questo che accade quando ti strappano dalle mani il regalo che hai appena ricevuto; non ne ho idea, non so dirlo. Io so solo che le nuvole sono ancora lì, loro che passano sempre, che pensavamo sarebbero passate come noi non avremmo fatto per noi due, almeno non adesso. Loro non sono passate, sono sempre lì, dove passa la ferrovia, ad amarsi tenendosi per mano come noi non facciamo più.
Loro, che dovevano passare, sono lì. E noi, che pensavamo di non passare, siam passati.
Se proprio vuoi parlare, parla pure.... ma parla piano.

"la verità non si sa, non si sa come riconoscerla; cercarla nascosta nelle tasche, i cassetti, il telefono... che ti da, che mi da, cercare dietro gli angoli, celare i pensieri e morire da soli in un'alchimia di desideri".

domenica 18 luglio 2010

Ho avuto bisogno di te.

Ho immaginato che lo schienale della poltrona su cui mi ero accoccolata fosse il tuo petto e che i braccioli prendessero la forma delle tue braccia per tenermi in una sfera amorevole, calda e morbida.
Solo un tuo abbraccio avrebbe potuto calmare l'ansia, il nervosismo, solo il tuo respiro avrebbe potuto permettere al mio di sincronizzarsi su una frequenza più bassa... lo sentivo.
Ho immaginato che il tuo mento spostasse con dolcezza i miei capelli e i tuoi silenzi accarezzassero i pensieri imbizzarriti.
Ho avuto bisogno di te, come una bambina arrabbiata ha bisogno delle carezze della mamma per prender sonno; così ho afferrato il telefono e ti ho implorato di soccorrermi... e tu sei arrivato col pensiero e mi hai tenuta stretta, senza dire una parola, come ti avevo chiesto. Così ho cominciato a dondolare, quasi che tu fossi lì davvero e mi ripetessi con la tua voce fina e ferma "shhh, non aver paura, non è niente.".
So che stasera non riuscirò ad addormentarmi ma proverò a calmarmi pensandomi nel tuo abbraccio, ripetendomi la tua voce che mi dice "Non è niente, stai tranquilla, non è niente".

... Ora che ci penso, non può essere niente il fatto che ho avuto bisogno di te.

giovedì 15 luglio 2010

la luce accecante delle palpebre chiuse

Avevo un'idea ma l'ho perduta, si è allontanata come la nuvola di fumo che segue l'atto del tirare con avidità una sigaretta: è rimasta sospesa per un po' davanti a me, leggermente indistinta e poi è andata via. Ho provato a rincorrerla ma non si fa afferrare.
E' libera, come l'aria, scivola ribelle tra le dita.
E' un'idea di fumo che non fa male ma lascia in bocca uno spillo che porta a tossire in modo poco composto. Con la gola brucerà anche l'istinto, colpito dal perdere battute indispensabili alla continuazione di un'insensatezza senza vincoli.
Alcune idee sono castelli di sabbia lasciati a far l'amore col vento e, proprio come il vento, che allontana con impazienza granello dopo granello lasciando uno scheletro di distruzione, così esse subiscono attentati alla struttura per finire tra gli altri granelli, sfinite, confuse e innominate. Domani potrei non avere più voglia di pensare: la realtà è già talmente colorata che appesantire la mente di stupide fantasie non ha davvero senso... E allora oggi andrò a dormire, per nascondere tra le palpebre i sogni che ancora spero possano diventare realtà, per ballare in uno spazio soltanto mio, illuminato a intermittenza da una luce accecante. Nel momento in cui lascio abbandonata ogni parte del mio corpo, mi sento davvero me stessa, mi guardo dal di dentro come se stessi facendo una panoramica dall'alto e mi faccio davvero tanta tenerezza. Non digrigno i denti e non stringo i pugni, non sistemo i capelli davanti agli occhi con gesti inquieti, non resto fissa con lo sguardo ambra su nulla.
Gli occhi sono chiusi, finalmente, e vedono solo quello che vogliono vedere con l'alternarsi di immagini tipico di una sequenza cinematografica. Nei miei momenti di buio lucente posso cambiare idea cinquantamila volte senza sentire il peso della responsabilità, posso fare una carezza e trasformarla in pugno sullo stesso viso e posso sentirmi docile, come non può accadere quando sono sveglia.
Chi l'ha detto che la dolcezza, quella vera, quella autentica, non stia, in realtà, in uno sguardo imbronciato?

lunedì 5 luglio 2010

Lilly rimase incantata per un attimo, come se poco distante da lei ci fosse la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua; se Lucas l'avesse trovata così assorta avrebbe fatto, di certo, una delle sue improbabili, buffe espressioni: a Lucas non piaceva essere guardato perché la cosa lo faceva sentire a disagio.
Lo guardava sfogliare con delicatezza e attenzione il libro che teneva tra le mani, seduto su una piccola seggiola di paglia, con la gamba destra a formare un angolo con la sinistra, un po' curvo e con la testa bassa. Tutto intorno a lui un prato, curato e di un verde dalla tonalità non troppo accesa, accompagnava l'occhio fino al pendio di una piccola collina brulla, al di là della quale attendeva, paziente e calmo, il mare.
Pensò a qualcosa da dire, a una frase a effetto per distoglierlo e soprenderlo ma rimase lì, in attesa e afona, a un palmo di naso da lui che sembrava non accorgersi di nulla tranne che dell'aria leggera delle prime ore della sera che stuzzicava il colletto della camicia e gli strappava un sorriso, di tanto in tanto, come una carezza.
"Le tue parole fanno male, sono pungenti come spine... sono taglienti come lame affilate e, messe in bocca alle bambine, possono far male, possono ferire, farmi ragionare, sì, ma non capire! non capire!... Ma tra le tue parole e i tuoi silenzi io preferisco di gran lunga le parole, anche se dure e senza fronzoli perché so, perfettamente, che oggi non sarei qui se tu fossi stato diverso, anche solo un po'". I pensieri di Lilly si agitavano tenaci e con la stessa forza cambiavano forma per attanagliare la gola e arrivare, infine, all'altezza del petto; a quel punto, gli occhi di Lilly si chiudevano per poi riaprirsi un istante dopo, nitidi ma lontani.
Sostando tra un capitolo e l'altro, Lucas si guardò intorno e, scorta Lilly poco lontano sulla sua sinistra, chiuse il libro in modo misurato, si alzò, sistemò il mattoncino sotto il braccio e prese ad andarle incontro. Lilly non si fece attendere e mosse anche lei i suoi timidi passi verso di lui che, adesso, pareva agli occhi di lei più perfetto ancora e ancora più giusta le pareva la strada percorsa fino a quel momento. Non sapeva, però, che l'anima spartana e volubile di Lucas l'avrebbe messa alla prova, una volta ancora:
- "come sempre in perfetto orario!"
- "Sono qui da qualche decina di minuti ma non ho voluto disturbarti, non volevo perdermi lo spettacolo per niente al mondo". rispose lei, aperta come un libro scritto con inchiostro blu netto su fogli bianchi come il latte.
- "lo spettacolo? che spettacolo?" riprese Lucas, interrogativo.
- "uhm... mah niente..." ma le si intravedeva sulle labbra un sorriso malizioso incantevole - "volevi parlarmi, hai detto. che si fa? restiamo qui tra le margherite o andiamo da qualche parte?"
- "lilly...." poi una pausa
- "ti ho già detto che questo tuo non decidere un po' mi infastidisce?... ma solo un po'"
- "me l'hai detto, Lucas. Ma anche tu non decidi mai..."
- "Già... A questo proposito... Lilly.... "
- "Ti prego, non dire nulla, so di cosa vuoi parlare..."
Lucas si voltò verso di lei, scuro e pensieroso.
Avevano assecondato la pigrizia e si erano seduti nello stesso punto dove si erano incontrati, tra le margherite e l'odore di fieno che il vento portava da poco lontano, con le gambe incrociate e la schiena un poco curva... erano divisi, nessuna parte del corpo dell'uno toccava, neppure per sbaglio, quella dell'altra, eppure mai come in quel momento le loro teste si tenevano per mano.
- "quindi hai capito cosa volevo dirti..."
- "Sì, Lucas, non ti preoccupare."
Dopo qualche minuto, Lilly divenne un fiume in piena:
- "Se ripenso a come ti ho trovato... se penso a come sei adesso..." - sorrise sospirando - "eri completamente perso, si vedeva lontano un miglio anche se facevi di tutto per nasconderlo. Ridevi ma in ogni sorriso c'era una goccia di amaro, di rimpianto, di risentimento, di dolore e adesso ridi senza ombre. Credi che sia poco questo, per me? Non rispondere, fammi continuare."
Lucas la guardava a denti stretti, statico come un masso mentre Lilly continuava il suo racconto a testa bassa, come a trovare il coraggio per non fermarsi.
- " No, lucas, non è affatto poco questo, per me. Ho fatto quello che, adesso, avrei desiderato fare. Del resto, sai benissimo quanto anche io avessi bisogno di cure, di spensieratezza, di gioco e tu mi hai dato tutto questo in modo così naturale che adesso la tua presenza, per me, è una droga. E non importa se non ci apparterremo mai! quello che ho avuto di te mi basta perché averti aiutato a essere splendente come adesso sei è più di quanto io avrei mai potuto desiderare di te, l'unica cosa che davvero porta un valore incalcolabile ai miei occhi. Conosco i tuoi dubbi, so come ti senti, so cosa senti, so che c'è ancora lei nella tua testa, so che non l'hai dimenticata e capisco che per te non sia facile, ma..."
- "io vorrei soltanto salvarti, Lilly...io non... io non so se.... io, lei la... perché non so se poi... sai che se non sono certo io sono... perché insomma,ho paura che.... non voglio che tu soffra a causa mia, non voglio che tu...salvarti, capisci?"
- "salvarmi?"
- "sì, salvarti!"
- "E se io volessi rischiare di morire?"
Lucas spense lo sguardo a terra e non rispose mentre Lilly, dopo averlo baciato dolcemente su una guancia perché le labbra,stavolta, non le erano accessibili, si allontanava da lui.
Ma Lucas, incapace di quella responsabilità, lasciò all'eco il compito di ripeterle:

"Voglio solo salvarti da me!"