lunedì 13 giugno 2011


Uscii fuori a guardare il più strano e meraviglioso balletto mai visto: il giorno corteggiava la notte, regalandole una rosa dai toni rosso pastello, come ogni sera, caparbio e risoluto, testardo nell'intento di farla sua, di rapirla, fosse anche per qualche ora
soltanto. Pensai che, se avessi aspettato qualche attimo, avrei potuto perfino guardare le prime stelle spuntare; aspettai. Volevo vedere quelle stelle comparire all'improvviso, forse solo per poter dire a me stessa di non aver aspettato invano la sera. Una musica cominciò a suonare ma non c'erano orchestre intorno, né bande musicali, né uno stereo: solo il verde della casa di fronte, le grida lontane di un bambino che rincorreva allegro il suo pallone e il rumore del mio respiro. Ma cantava la mia testa, ripeteva, come una nenia, le tre battute di una filastrocca dimenticata. "Uccellin che vien dal mare quante penne puo' portare?Puo' portarne Trentatre', uno due tre." a bassa voce una, due, tre, trenta volte "Uccellin che vien dal mare quante penne puo' portare? Puo' portarne Trentatre',uno due tre."
Quando poi cominciò a soffiare il vento sciolsi i capelli, lasciai le labbra schiuse alle carezze della frescura delle serate estive e chiusi gli occhi. Ero sola, certo, poco incantata, rigida e ricoperta di aculei ma la sera mi scopriva nella mia fragilità elementare, macchiata del sangue delle ferite che io stessa mi ero procurata col silenzio di una mancanza ferma al petto e nelle più profonde sinapsi del cervello, come ai recettori olfattivi che riproducevano con grande verosimiglianza quei profumi. Mi riscopriva più donna che bambina, avvolta da un mantello di dolore misterioso ma sorridente nelle difficoltà di un'età ancora non pienamente sbocciata. Uccellin che vien dal mare
quante penne puo' portare?Puo' portarne Trentatre',
uno due tre.
No, non avevo aspettato invano la sera.

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